• Home
  • Privacy & Cookies Policy
  • Disclaimer & Copyright

Il Patrimonio Culturale del Meridione

Diffondere, conoscere e tramandare il valore della cultura del Sud Italia


Il paradiso ha i suoi angeli e l'inferno i suoi demoni, ma vi sono città che hanno gli uni e gli altri insieme. Dov'è, Messina, l'anima tua bella di cui mio padre mi parlava un giorno? Dopo il disastro tornerà novella o anch'essa se ne andò senza ritorni? Qui soltanto chi t'ama si ribella e accusa il male che ti sta d'intorno ma i più sono servi di chi più ti spella e in tasca han due amuleti: un santo e un corno. Qui subii la più trista invidia nera, conobbi vermi sotto argentee vesti, anime sporche in abito da sera ed in mezzo a tanta ipocrisia che dura pochi cuori sinceri buoni onesti come le perle nella spazzatura.

Nino Ferraù


Sicilia 1968. Sciascia racconta "La grande sete".



È ormai un luogo comune che la Sicilia è terra di contrasti, di contraddizioni, di incongruenze, di paradossi. Ma in queste immagini il termine della contraddizione, del paradosso, non è il mulo ma l´automobile, se considerati come simboli - rispettivamente - di una situazione effettuale e di una aspirazione finora vaga e vana. Un´economia agraria tra le più arretrate d´Europa, forse la più arretrata; e il sogno dell´industrializzazione: questa è oggi la Sicilia. 

Di questi paesi dell´interno un tempo si diceva che vivevano di agricoltura. Oggi si può dire che di agricoltura muoiono, e sopravvivono soltanto per le rimesse degli emigranti e le pensioni di vecchiaia e inabilità che lo Stato ed altri enti avaramente elargiscono. L´isola ha tanti problemi. Ma quasi tutti si collegano al problema dell´acqua. L´acqua contesa fino alla violenza e al delitto. L´acqua che si perde nei meandri della burocrazia e della mafia. La gente di ciò ha coscienza: sa, come proverbialmente si dice, dove e come l´acqua si perde. 

La disponibilità attuale dell´acqua in Sicilia è di 165 litri al giorno contro una media nazionale di 250 - media comprendente i depressi livelli del Sud. La disponibilità normale al Nord è di oltre 400 litri al giorno. Nella classifica delle regioni per numero di abitanti con insufficiente disponibilità idrica, la Sicilia è al primo posto seguita dalla Puglia. Un tempo la Sicilia era celebrata anche nelle sue acque: i poeti greci, i poeti arabi, il poeta Antonio Veneziano che, nel Cinquecento, esaltò l´idrografia siciliana nella marmorea rappresentazione di quella fontana pretoria oggi asciutta nella piazza dove sorge il municipio di Palermo. La Sicilia ricca d´acque è ormai come un miraggio. Un miraggio la Fonte Aretusa nel cuore dell´antica Siracusa, così pure miraggi i fiumi mitici della stessa città, il Ciane e l´Anapo, cantati da Salvatore Quasimodo. In questi fiumi crescono i famosi papiri del tempo classico, piante che hanno bisogno di una grande quantità d´acqua. E ancora miraggio le bagnanti dei mosaici di Piazza Armerina. 

Più reale è questa Sicilia arida, percorsa in questa valle dalle acque del fiume Salito, stente e brucianti. Il Salito: un fiume che inaridisce invece di suscitare rigoglio, un fiume che nasce tra i giacimenti di sale - salgemma e sale potassico - di questa zona della Sicilia in cui la tecnica è arrivata soltanto per strappare il minerale e non per desalinizzare le acque che darebbero vita alla terra. Un itinerario lungo, ossessivo, un viaggio quasi senza speranza. Più di diciotto chilometri sono lunghi i tralicci che permettono alla teleferica di convogliare il materiale allo stabilimento di Campofranco, dove un grande bacino artificiale raccoglie le acque del Platani. Una produzione di 250 tonnellate di solfato potassico. Ma cosa resta alla Sicilia?

Il sogno dell´industrializzazione, là dove si è realizzato, ha aggiunto aridità all´aridità: e il caso più evidente è quello della piana di Catania. Dalle dighe Pozzillo e Ancipa la piana doveva essere irrigata, mutata da granaio in giardino. Ma l´industria aveva bisogno di acqua, e subito l´acqua destinata all´agricoltura è stata sacrificata a questo sogno, a questo mito. L´acqua non scenderà mai più per questa rete di canali. Uno dei tanti sprechi, e forse il più imperdonabile che siano stati consumati in questi anni da una classe di potere impreparata e imprevidente.

La mancanza totale di acqua ha spopolato quasi del tutto di abitanti il villaggio Capparini, costruito nell´Eras - l´ente per la riforma agraria in Sicilia - non lontano da Roccamena. La famiglia che abbiamo avvicinato, una delle otto superstiti, è di San Cipirello. Uno dei casi estremi della povertà e dell´incuria del governo nazionale e regionale è quello di Licata. Ma non è purtroppo il solo. Tutta la provincia di Agrigento soffre di una penuria di acqua addirittura inverosimile. Licata è la città più assetata d´Italia: la sua dotazione massima arriva a 35 litri al secondo, ma in questo periodo non supera i 22, con punte frequenti fino a 14 litri al secondo. Talvolta l´acqua viene a mancare perfino trenta giorni di seguito.

Nel luglio del 1960 la popolazione esasperata per la mancanza di acqua bloccò la stazione ferroviaria. Intervennero reparti speciali di polizia che fecero fuoco sulla folla. Un giovane rimase gravemente ferito. Anche Favara, grosso centro minerario, il cui nome arabo vuol dire sorgente, è fra i paesi più assetati della provincia di Agrigento. Anche Agrigento, che non ha acqua nelle case, ma ne abbonda invece nel cimitero: paradosso che assurge a simbolo di soluzione metafisica di un problema che resta per i vivi insoluto. A prova che il problema può anche essere sottratto alle soluzioni metafisiche e risolto con concreta buona volontà e competenza, abbiamo questa zona di Vittoria, in provincia di Ragusa, dove gli agricoltori, senza godere di quei contributi di solito generosamente elargiti a chi specula e inganna, si sono affaticati a trasformare un´agricoltura estensiva in colture intensive. 

Tutta la costa meridionale della provincia di Ragusa è ricoperta di serre. L´iniziativa ha cambiato il volto socio-economico della zona. I prodotti pregiati delle coltivazioni comportano affari nell´ordine di miliardi. Il boom è recente: nel 1964 le serre coprivano un migliaio di ettari, oggi oltre 5000. Furono i braccianti di Vittoria che con il solo capitale delle proprie braccia impiantarono le prime serre sui terreni sabbiosi della costa. Il problema dell´acqua lo risolsero ugualmente con le proprie forze, scavando dei pozzi alle volte con mezzi rudimentali, senza aiuti di nessuno genere dallo Stato. 

Una zona agrumaria fra le più importanti della Sicilia è quella intorno ai centri di Lentini e di Francofonte. Ma anche qui la mancanza d´acqua diviene di giorno in giorno più grave. La situazione invece di migliorare peggiora sensibilmente, e la produzione di agrumi rischia di essere seriamente compromessa. Pare che il famoso biviere di Lentini, il biviere della malaria verghiana, debba essere di nuovo ripristinato in questa valle oggi coltivata da piccoli proprietari. Ma l´acqua sarà destinata all´industria e non all´agricoltura. Lentini è diretta da un´amministrazione di sinistra. Il sindaco e gli amministratori si consultano sul problema dell´acqua. A tanta sete, della terra e degli uomini, rispondono delittuose incongruenze: questa diga del Disueri, a monte di Gela, è rimasta abbandonata e va in rovina. 

La diga Disueri fu iniziata nel 1939 e portata a termine nel 1949, con una interruzione a causa della guerra. La capacità iniziale di invaso era di 14 milioni di metri cubi di acqua, ora ridotta a otto milioni per il progressivo interramento del bacino dovuto alla insufficienza e al ritardo del rimboschimento. Finalmente si costruisce la diga sullo Jato, anche se si è arrivati ai lavori dopo tante lotte, tanti digiuni e tante marce per sensibilizzare l´opinione pubblica e per far tacere l´opposizione mafiosa. L´ultimo digiuno fu fatto a Partinico e durò otto giorni. Quando la diga sullo Jato sarà in funzione si potranno irrigare 8500 ettari con un aumento della produzione per il valore di un miliardo e 700 milioni rispetto all´attuale, con un incremento di circa 850 mila giornate lavorative all´anno. La diga sul Carboi, al lago Arancio, irriga circa 6000 ettari delle pianure di Menfi e di Sciacca. Domenico Messina, organizzatore e dirigente dei contadini, Vincenzo Saladino della cooperativa "Madre terra" di Sciacca, e il dottor Michele Mandiello, agronomo, ci parlano di questa diga. 

E siamo a Palermo, città in anni non lontani sufficientemente rifornita dell´acquedotto di Scillato e oggi paurosamente povera di acqua, specialmente nei quartieri popolari. Sembra incredibile che questa sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque. E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell´acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni. Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle. Quelle acque che loro raccoglievano e che noi abbiamo lasciato perdere e disperdere. E siamo nell´era della tecnica, dei più immaginabili prodigi della scienza.  

Non si direbbe, a vedere questa disperata aria di arrangiarsi, cui sono costretti gli abitanti della più grande città siciliana per procurarsi quel minimo di acqua per bere, per lavarsi, per lavare. E la devono ai "gattopardi", a quegli antichi signori e amministratori della città che hanno ceduto ora il passo agli "sciacalli". Quella poca acqua che c´Ã¨ ha di questa ipoteche: speculazione, violenza, il profittevole giuoco della rivendita. Un bene pubblico tra i più indispensabili, è dominio del sopruso, dell´affarismo, del capriccio, della mafia. 

Ma la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ha offerto in questi ultimi tempi un documento della lungimiranza governativa su cui gli italiani e i siciliani possono fondare le più ampie speranze. Si prevedono opere per un importo di 1844 miliardi di lire: sicché nell´anno 2015 il problema dell'acqua sarà completamente e definitivamente risolto.

La Sicilia del 2015 sarà ricca di acque quanto oggi il cimitero di Agrigento. Naturalmente si aspetterà il 2014 per cominciare i lavori.

Leonardo Sciascia 

Il giornalista Giovanni Taglialavoro ha rintracciato il testo di Leonardo Sciascia che accompagnava il documentario "La grande sete" girato nel 1968 da Massimo Mida con la sceneggiatura di Marcello Cimino. Il testo, praticamente inedito, è stato pubblicato dallo stesso Taglialavoro sul sito www.suddovest.it



La Sicilia è bellissima e dura col suo sole titanico e tirannico, la sua luce violenta, il suo mare che dipinge e colora l’aria e la rinfresca. Bellissima e morbida nelle sue lente sere odorose, ridondanti di brezze lievi e vestiti leggeri e di chiacchere indolenti, di luci lungo le coste, di cibi sensuali. La Sicilia è scomoda, ma viverla è possibile con orgoglio antico e altero. C’è chi crede che questa terra possa crescere e diventare moderna, civile ed economicamente evoluta senza perdere però le sue suggestioni, il suo fascino, la sua cultura. C’è chi lavora perché ciò accada. …dedicato a loro. Ai siciliani che crescono.

Leonardo Sciascia



Farneticava.
Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale .
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gaio azzurro della mattinata invernale. 
- Morrà? Impazzirà?
- Mah! Morire, pare di no...
- Ma che dice? che dice?
- Sempre la stessa cosa. Farnetica... Povero Belluca!

E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso. 

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. 

Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosi per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. 

Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna era venuto con più di mezz'ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. 

La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: E come mai? Che hai combinato tutt'oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani. Che significa? aveva allora esclamato il capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo: Ohé, Belluca! 
Niente, aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere. 
- Il treno? Che treno?
- Ha fischiato.
- Ma che diavolo dici?
- Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare... 
- Il treno?
- Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! 

Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo ufficio che quella sera doveva essere il malumore urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti.

Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui.

Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, I'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinari, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima. 

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche aiuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al buio, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. Magari! diceva Magari!

Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno. S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. 

C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita "impossibile", tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosi... c'erano gli oceani... le foreste... E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebbro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...!


Luigi Pirandello - Novelle per un anno




"Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?"

Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa



"Un teatro era il paese, un proscenio di pietre rosa, una festa di mirabilia. E come odorava di gelsomino sul far della sera. Non finirei mai di parlarne, di ritornare a specchiarmi in un così tenero miraggio di lontananze".


Gesualdo Bufalino, "Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria"

Renato Guttuso

«Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all'interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca. »

Vincenzo Consolo - Le pietre di Pantalica, 1988

Vieni a me stranier, che vuoi?
La tua Patria?- Fu Messina.
Il tuo nome e gli anni tuoi?
Pippo e gli anni una trentina,
Fosti vate?- Mai lo fue
Quali furon le opre tue?
Qualche volta un sonettino
Fu sublime? Triviale
Componesti mai in latino?
Rare volte: Bene- Male
E perchè creduto un vate?
- Perchè feci cicalate.
- La tua vita?- Un arsenale
fu di vizi ed un complesso.
- Ma qual vizio principale
dominotti? – Tel confesso:
giorno, notte, e in ogni loco
indefesso sempre al gioco:
ombres, caschera, tresette,
stopo, gof, banco fallito,
biribissi, e di bassette
pantalone assai perito,
e giuocavo con li fiocchi
la pallara e li tarocchi;
qulalche volta di bordello…
- Taci, bestia, assai presumi
e profani il mio cervello,
l’aria, il cielo, il mare, i Numi.
Son delitti i vizi tuoi
nè sei degno a star fra noi.

Don Pippo Romeo



Nacque in Messina da famiglia patrizia nel 1733 e presto si segnalò per acume d'ingegno e natural brio. Studiò in Messina e poi in Napoli la letteratura, rendendosi familiari i classici italiani e latini. Tornato in patria, vi si fece tosto conoscere per le sue cicalate, poesie giocose e satiriche, che resero in breve popolare il suo nome. Di queste cicalate ne leggeva per incarico dell' Accademia Peloritana, una all'anno, in occasione dei trattenimenti di carnevale. Esse furono raccolte e pubblicate più volte in un volume, a Napoli e Messina; si leggono tuttavia con grande diletto, e sono il miglior monumento della fama di don Pippo Romeo. Egli fu più volte senatore e console nobile di mare e di terra. Morì a' 31 dicembre 1805.



Il 12 febbraio 1966, moriva a Milano, lo scrittore siciliano Elio Vittorini, nato a Siracusa il 23 luglio 1908. In occasione del 48° anniversario della sua morte, pubblichiamo uno scritto di Leonardo Sciascia: 

La notizia che Vittorini è morto me l’ha data Calogero Boccadutri: domenica mattina, tredici febbraio, appena uscito di casa. L’ultima volta che ho visto Vittorini abbiamo parlato, appunto, di Boccadutri. Come ogni volta mi ha domandato del vecchio compagno – “E Boccadutri, che fa Boccadutri?” – ma stavolta mi ha raccontato con più particolari la storia di come lo aveva conosciuto. Mandato dal Partito comunista a Caltanissetta, con una valigia piena di pubblicazioni clandestine, vi era arrivato di notte. Era tempo di guerra e gli toccò di passare la notte nella sala d’aspetto della stazione: affamato, paralizzato dal freddo. Appena fatto giorno salì in centro, dove già la sera prima avrebbe dovuto incontrare una persona che non conosceva e che non lo conosceva. E Vittorini ancora si chiedeva come avesse fatto Boccadutri a individuarlo così immediatamente e sicuramente, ad avvicinarglisi senza quelle precauzioni che allora erano elementari, considerando che un errore di persona poteva portare al carcere direttamente. Vittorini disse a Boccadutri della sua fame: e Boccadutri, che viveva solo, subito gli preparò un piatto di spaghetti. Il ricordo di quel piatto di spaghetti, alle otto del mattino, lo divertiva e lo commuoveva. E a sentirgliela raccontare a me veniva di pensare che attraverso Boccadutri, attraverso quel ricordo, Vittorini toccava uno dei punti dolenti della sua storia. Perché quando Togliatti con pesante ironia, liquidò le ultime battute della sua polemica con Vittorini intitolandole Vittorini se n’è ghiuto e suli ci ha lassato, era – appunto come Togliatti intendeva – Vittorini ad essere rimasto solo: ma non per aver perduto la compagnia di uomini come Togliatti, ma quella di uomini come Boccadutri.


Leonardo Sciascia, "Giovane critica" primavera del 1966



“L'uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange ed ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all'offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e che era, in lui, per renderlo felice. Questo è l'uomo. Ma l'offesa che cos'è? È fatta all'uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? l'oppressione? Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è  perché vuol liberarsi non per vendicarsi. Questo è l'uomo il Gap anche? Per Dio se lo è!”.................... Ma l'uomo può  anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l'uomo. Noi lo vediamo. É lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l'uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l'uomo? Noi non pensiamo che agli offesi. O uomini! O uomo! Appena vi sia l'offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che che è l'uomo. Sangue? Ecco l'uomo. Lagrime? Ecco l'uomo. E chi ha offeso che cos'è? Mai pensiamo che anche lui sia uomo. Che cosa può essere d'altro? Davvero il lupo?"


Tratto da "Uomini e No" di Elio Vittorini




«Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l'arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso.»





Tengo 'nu cane ch'è fenomenale,
se chiama "Dick", 'o voglio bene assaie.
Si perdere l'avesse? Nun sia maie!
Per me sarebbe un lutto nazionale.
Ll 'aggio crisciuto comm'a 'nu guaglione,
cu zucchero, biscotte e papparelle;
ll'aggio tirato su cu 'e mmullechelle
e ll'aggio dato buona educazione.

Gnorsì, mo è gruosso.è quase giuvinotto.
Capisce tutto... Ile manca 'a parola.
è cane 'e razza, tene bbona scola,
è lupo alsaziano,è polizziotto.

Chello ca mo ve conto è molto bello.
In casa ha stabilito 'a gerarchia.
Vo' bene ' a mamma ch'è 'a signora mia,
e a figliemo isso 'o tratta da fratello.

'E me se penza ca lle songo 'o pate:
si 'o guardo dinto a ll'uocchiemme capisce,
appizza 'e rrecchie, corre, m'ubbidisce,
e pe' fa' 'e pressa torna senza fiato.

Ogn'anno, 'int'a ll'estate, va in amore,
s'appecundrisce e mette 'o musso sotto.
St'anno s'è 'nnammurato 'e na basotta
ca nun ne vo' sapè: nun è in calore.

Povero Dick, soffre 'e che manera!
Porta pur'isso mpietto stu dulore:
è cane, si ... . ma tene pure 'o core
e 'o sango dinto 'e vvene... vo 'a mugliera...

Traduzione:
“Ho un cane fenomenale, si chiama Dick e gli voglio molto bene. Se dovessi perderlo? Non dovesse mai accadere! Per me sarebbe un lutto nazionale. L'ho cresciuto come un bambino, con zucchero, biscotti e pappe. L'ho cresciuto con le briciole e gli ho dato una buona educazione. Sissignori! Ora è grande, è quasi un giovinotto Capisce tutto, gli manca soltanto la parola! E' un cane di razza, addestrato bene, è un lupo alsaziano, è un cane Poliziotto. Quello che adesso vi racconto è molto bello, in casa ha stabilito una gerarchia. Vuole bene alla mamma, che è mia moglie, e mio figlio lui lo tratta come un fratello, e di me pensa che io sia suo padre. Se lo guardo negli occhi, lui capisce, punta le orecchie, corre, mi ubbidisce e per far presto torna senza fiato. Ogni anno durante l'estate va in amore, s'immalinconisce e mette il muso. Quest'anno si è innamorato di una bassotta, che non ne vuole sapere di lui, non è in calore. Povero Dick, soffre, ed in che modo! Porta anche lui in petto questo dolore. E' un cane sì ... ma ha anche lui un cuore.. e il sangue nelle vene .. vuole una moglie...”


Questa poesia venne dedicata da Totò al suo pastore alsaziano Dick, un cane poliziotto in pensione che recitò con lui nel film “Totò a Parigi”. Oltre a Dick, l'attore si occupava di altri cani che accudiva personalmente. Aveva sempre avuto l'abitudine di andare a far visita ai cani ospitati in altri canili, li visitava a turno, sostenendoli economicamente. Si faceva accompagnare sempre da qualcuno, perché Totò era quasi completamente cieco. Finché nel 1965 decise di far costruire lui stesso un canile vicino Roma, che chiamò “L'ospizio dei Trovatelli”, dove venivano ospitati cani malati o feriti: si trattava di ben 220 cani cosiddetti "randagi", un termine questo che Totò non gradiva. Un canile per il quale spendeva quarantacinque milioni di lire all'anno. Eppure, tutti sappiamo che il Principe Antonio De Curtis, malgrado i titoli nobiliari, non navigasse nell'oro. 

Lietta Tornabuoni, critico cinematografico, una volta lo accompagnò dai suoi amici a quattrozampe. In un articolo apparso su “La Stampa” ci regala un ricordo personale del rapporto che univa Totò ai suoi trovatelli, un amore reciproco: "Sceso dalla macchina venne accompagnato dall'autista alla rete metallica che circondava il terreno di giochi dei cani e aiutato a entrare. Una festa: gli si precipitarono addosso tutti insieme abbaiando, mugolando, scodinzolando, puntandogli le zampe sul cappotto. Lo riconoscevano, mentre Totò aveva la vista troppo danneggiata per riuscire a individuarli". 

Come talvolta accade agli amanti e conoscitori dei cani, Totò non nascondeva di nutrire nei loro confronti un amore, una stima ed una simpatia maggiori rispetto ai sentimenti che nutriva nei confronti degli umani. Perchè per Totò "Il cane è quella cosa a metà strada tra un angelo e un bambino".




In una lunga intervista pubblicata da "L'Europeo" del 6 ottobre 1963 e condotta dalla scrittrice e giornalista Oriana Fallaci, alla domanda sui motivi per i quali recitasse anche in film di scarsa qualità, il grande Totò rispose che doveva mantenere i suoi cani. Leggi l'intervista integrale qui.







Intervista ad Antonio De Curtis, in arte Totò, pubblicata su "L'Europeo" del 6 ottobre 1963 e condotta dalla scrittrice e giornalista Oriana Fallaci:

Fallaci - Principe, che dice mai? Son io che m'inchino, io che Le porgo i miei rispetti e i miei omaggi, io che La ringrazio, io che mi turbo. Se Le dicessi che La considero l'unico autentico artista fra tanti cialtroni, l'unico vero signore fra tanti cafoni, l'unica Altezza imperiale davanti alla quale mi tolgo non uno ma cento cappelli....Lei è proprio principe, vero? (Sorride un pò imbarazzata al gentiluomo dall'aria nobile e triste, l'abbigliamento impeccabile, che la ossequia da alcuni minuti come se fosse l'imperatrice Teodora) 

Totò - Signorina mia, vuol scherzare? Non crederà mica anche lei che i ritratti degli antenati li ho presi dagli antiquari? I titoli non si comprano, li danno i sovrani. Vi sono due specie di titoli: quelli nativi, i quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa... Il mio è nativo. E ce l’ho dal giorno in cui venni al mondo: come mio padre, mio nonno, mio bisnonno, mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo. Sì, questo sul mio anello è lo stemma. Come vede, sullo stemma sono incise la data, 362 a.C., l’Araba Fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne di Ercole, la mezzaluna con tre stelle che sarebbe l’Oriente...

F - Il volto bizantino ce l’ha.

T - Me l’hanno già detto. Ricorda quelli di certi mosaici a Ravenna. Me l’hanno già detto. Vengo da Bisanzio, per forza. Signorina mia, sono Altezza Imperiale, son Principe e anche molte altre cose: Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero, Ufficiale della Corona d’Italia, Cavaliere della Gran Croce dell’Ordine di Sant’Agata e San Marino, Marchese di Tertiveri, questo però non lo uso. (Con lo stesso tono di voce) Dick, il mio cane lupo, era invece Barone. Peppe, il mio cane attuale, è Visconte. Visconte di Lavandù. Gennaro, il mio pappagallo, è Cavaliere. Li ho investiti io. Caligola non fece senatore il suo cavallo? 

F - Troppo giusto, però non deve dirlo. Altrimenti concludo che non gliene importa, d’essere Altezza Imperiale. 

T - Signorina mia, me ne importa: quel tanto che basta a onorare gli avi, la famiglia che ha avuto questa roba... Sarebbe come dire che il pronipote di Marconi non ci tiene a esser pronipote di Marconi. Ci tiene. Ma il mio più bel titolo resta Totò. Con l’Altezza Imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, con Totò ci mangio dall’ età di vent’anni. Mi spiego?

F - Ma le altre altezze imperiali e non come La trattano?

T - All’ inizio mi snobbavano, si capisce. Poiché lavoro, poiché faccio il pagliaccio, mi guardavano con la puzza al naso. A ogni modo, sa, io me ne infischio di come mi trattano: perché il mio titolo è più forte del loro. E poi su queste cose la penso come lo spazzino della mia poesia 'A livella', quella del marchese che è seppellito accanto allo spazzino e vuol mandarlo via: «Marche’ , mme so’ scucciato / T’o vvuo’ mettere ‘ncapo...’int ‘a cervella/ che staje malato ancora’ e fantasia?/ ‘morte ‘o ssaje ched’ è? È ‘na livella / Nu rre, nu magistrato, nu grand ‘omme / trasenno stu canciello ha fatt’ o punto / e ha perso tutto: ‘a vita e pure ‘o nomme. / Perciò stamme a senti’ , nun fa ‘o restivo: / suppuorteme vicino che te ‘mporta? / Sti’ ppagliacciate ‘e ffanno solo ‘e vive / Nuje simmo serie, appartenimmo ‘a morte». Dico bene?

F - Lei dice sempre bene. E poi Lei è un divo, un artista.

T - Macché artista: venditore di chiacchiere. Un falegname vale più di noi artisti: almeno fabbrica un tavolino che rimane nei secoli. Ma noi, dica, che facciamo? Quanto duriamo? Al massimo, se abbiamo molto successo, una generazione. Se chiedo al mio nipotino chi era Petrolini, chi era Zacconi, risponde boh!

F - La Sua modestia mi lascia smarrita. Lei sta recitando.

T - Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’ unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero: non recito. Sto per confessarmi, anzi, come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono. Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film.

F - E allora mi dica: perché recita in quei brutti film?

T - Signorina mia: io non prendo i 100, i 70, i 50 milioni di lire che prendono gli altri. E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso 600 milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato. Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film. Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un pò alla volta falliscono un pò tutti, dopo che faccio? I film dove recito io son commerciali, son filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco: anche come film. Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va... Sarebbe scorretto, scortese... Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e son morto. Poi sa: la vita costa, io mantengo 25 persone, 220 cani... I cani costano...

F - Duecentoventi cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?!

T - Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui le è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’ uomo.

F - Lei non ha una gran stima degli uomini. Una buona opinione del Suo prossimo. E forse non ha nemmeno molti amici.

T - No. No. No! Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo. Di amici... ne avrò due, forse. Sì, due ne ho: il Conte Paolo Gaetani e il Conte Fabrizio Sarazani. A parte il titolo, due che lavorano, come me: umili operai, come me. Perché vede: quella mia battuta «Siamo uomini o caporali» non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi.

F - E quando nacque questo Suo odio per i caporali, Principe?

T - Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, son quelli che voglion essere capi. C’è un partito e sono capi. C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti... Quelli, sa: sempre meglio dell’ingratitudine... All’ ingratitudine io ci sono abituato e la accetto: con divertimento. Io non mi arrabbio mai per l’ingratitudine. Una volta feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato il pollo, diceva, per fare il brodo alla figlia tubercolotica. I ladri di polli mi son sempre rimasti simpatici, anche se non hanno la figlia tubercolotica: così chiamai il mio avvocato e lo feci scarcera’. Bene. Sa cosa fece? Uscì e rubò la valigia dell’avvocato. Non è divertente? Per me, sì. Per Lei, meno: suppongo. Anche per me. Un’altra volta avevo un amico: un giornalista. Veniva sempre a mangiare da me, mattina e sera, ed era proprio un amico, non un caporale. Mi chiese in prestito una macchina da scrivere e io gliela comprai. Nuova nuova. Lui disse grazie, andò a casa con la sua macchina e la inaugurò scrivendo un articolo contro di me. L’articolo più feroce che mai sia stato scritto sopra di me: il più crudele, il più cattivo. Divertente, no? Per me, sì, per Lei, un po’ meno. Anche per me. E, in questo caso, più che divertente: bello. Pensi che pena, che mancanza di dignità, se avesse inaugurato la macchina scrivendo bene di me. Infatti il giorno dopo tornò a mangiare e ci ridemmo su.

F - Principe: io non L'ho mai vista ridere. A parte il fatto che esser triste è la legge dei comici, io temo che Lei abbia sempre riso pochissimo: che non conosca il sapore di una bella risata.

T - Pochissimo, niente. Io non rido, sorrido. E, anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna: non si può mica parlare a una donna con il musone. Però vede: non è esatto nemmeno dire che io sia triste: son calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so... starei ore e ore fermo a guardare il cielo, la luna. Io amo la luna, assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, morte, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, le rane che fanno qua qua, l’eleganza tetra della notte. È bella la notte: bella quanto il giorno è volgare. Il giorno... che schifo! Le automobili, gli spazzini, i camion, la luce, la gente... che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore. Come il giorno.

F - Lei è un animale notturno, lo so: non va a letto prima dell’alba e si sveglia quando il sole è già alto. Ma come passa la notte?

T - Nulla e tante cose. Ora le spiego. La servitù va a dormire alle 11. Franca, mia moglie, resta con me fino alle 2, mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io son mezzo cieco... Poi anche lei va a dormire ed io resto solo. Giro per la casa, sto seduto, penso, io penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, che le valvole della luce elettrica siano a posto, spengo le cicche perché ho sempre paura dell’incendio, vuoto i portacenere perché non sopporto l’odore delle cicche... E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni e in più la radio marina, mi metto lì e mi sento tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, «Partito da Gibilterra, caricato 6 quintali di banane», e ci trovo l’ alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo.

F - No: una scena da uomo solo. Lei dev’essere un uomo terribilmente solo, Principe. Solitario e solo.

T - Molto solo: non terribilmente solo. Perché io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare... A volte mi danno noia perfino le persone che amo: mia figlia, mia moglie... E, quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia. Sì, è difficile viver con me: questo è un rimprovero che le mie compagne mi hanno sempre rivolto, che all’ inizio mi rivolgeva anche Franca. Ora Franca vi si è assuefatta, trova questa vita normale sebbene sia giovanissima. Pensi, ha solo 32 anni... Prima invece... La capivo, sa? Capivo che le sarebbe piaciuto andare nei posti, nei night. Ma a me non piace, non è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone v’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato... Gliel’ho detto: sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona. Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa». Oggi, per esempio, Franca è a Lugano e in casa son solo. Be’, ci sto benissimo. Sì, è molto difficile viver con me. Eppure, matrimoni a parte, non ha mai fatto lo scapolo.

F - La sua casa è stata vuota ben poco, e La si è sempre vista a braccetto di splendide donne.

T - Poco, guardi, poco: in un modo o nell’altro son stato sempre accoppiato, pardon, accompagnato. Non posso stare, io, senza una donna. Prima, quando viaggiavo senza una donna, portavo sempre con me una vestaglia femminile e un paio di scarpine col tacco. Sempre. Così, prima di andare a letto, appendevo la vestaglia accanto alla mia, mettevo le scarpine accanto alle mie, e mi sembrava di aver la donna. Che vuol farci: amo troppo le donne. Sarà perché sono meridionale, sarà perché odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore. Io le amo tanto, le donne, che riesco perfino a non essere geloso. Tanto a che serve esser geloso. Se una donna ti vuol bene, è felice. Se non ti vuol bene, ne prendi un’altra. Sì, lo so cosa pensa. Che dalle mie canzoni risulta tutto il contrario. Ma quelle cose si scrivon così perché fanno comodo...

F - E Lei, Principe, sa esser fedele?

T - Ora sì. Prima no. Ma per l’uomo è diverso. L’uomo è poligamo. Ha mai visto cento pecore e cento montoni, dieci galli e dieci galline? Io ho sempre visto cento pecore e un montone, dieci galline e un gallo. Se fossi musulmano... Dica: ma come fanno quegli uomini cui non piacciono le donne? Io non li capisco. Io, quando dicono sì, quello è, no, quello ci fa ma non è, mi sento malato. Cielo. Che schifezza! Ma come fanno?! Lei lo sa?

F - Giuro di no, Principe. Giuro di no.

T - Senta: quand’ero soldato, nella prima guerra mondiale, mandarono il mio reggimento sul fronte francese e ci dettero a tutti un coltello. In treno chiesi al sergente: «Sergente, permette, a che serve u’ curtiello?». E lui: «Ai marocchini, soldato. Devi sempre portarlo con te perché là ci stanno i marocchini i quali fanno certi servizi». Gesù! Mi prese tanta paura che mi sentii male. Aspirai lo zolfo di tutti i fiammiferi del reggimento e mi sentii male. Così svenni e mi feci ricoverare in ospedale. Signorina mia... io la penso così. Forse son rimasto all’antica, ma la penso così.

F - Vuol dire, Principe, che la Sua epoca non La interessa? Che ci si sente a disagio?

T - Esattamente, signorina mia. In questa epoca io ci vivo per sbaglio. Pensi che non sono mai salito in aereo: in materia di aeronautica, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci. Non concepisco i mezzi veloci: viaggiare svelti, a che serve? Io ho l’automobile ma tengo un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. Capisce bene che a me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino, sa, le manate sul popò... E se non lo tengo è perché non posso andare in carrozza, perché mi sfotterebbero. Cosa dice? Viaggiare? Che m’importa viaggiare? Un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini son tutti uguali, i caporali son tutti uguali.

F - Chissà che fastidio, allora, quando Sua moglie Le legge degli astronauti e delle cosmonavi...

T - Disinteresse e fastidio. Ma via! Le pare giusto andare da Roma a Napoli in un’ora e mezzo? Pensi che bellezza quando ci si metteva ben 7 ore, una notte intera col vagone letto! La luna, la luna! Signorina mia, in quella gente io non vedo nemmeno il coraggio. Ad andar sulla luna con l’aeroplano, quale coraggio mi ci vuole? Forse posso difendermi dall’ aeroplano? Farci a cazzotti? Sarebbe come dire che mi difendo dal 13, dal 17, dal gatto nero, dalla coppia di monache, dalla gobba, dalla civetta, dal sale che cade, dall’olio che si versa, dallo specchio che si rompe, dal viola... Non so se ha capito che son superstizioso.

F - No, Principe. Ho la testa dura. Dica: è superstizioso?

T - Maledettamente superstizioso. Io, quando è martedì e venerdì, 13 o 17, può cadere il mondo: mi chiudo in casa.

F - Perché, Principe? Ha paura di morire?

T - No, di morire no. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto. C’è già la tomba e sopra c’ è incisa già la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non mi importa morire. Mi importa, ecco, invecchiare. Quello proprio mi disturba, mi secca. Sapesse che dramma sentirsi giovani e poi guardarsi allo specchio, vedersi un volto pieno di rughe, una testa di capelli grigi... Gesù! Che schifezza! Cosa dice?! Maturità?! No, no, bella mia: lei non mi incanta coi discorsi sulla maturità. Io vorrei essere immaturo e aver 18 anni. Che dice?! Povertà?! No, no: io me ne infischio della povertà. Io vorrei essere povero e aver 16 anni. Macché 16! Quindici. Tredici. Nove!

F - Dica, principe: ma Lei, quando invoca i santi, lo fa per abitudine o per fede? Insomma, Lei è religioso o no?

T - Religioso?! Religiosissimo! Vado a messa, mi comunico, e ci credo. Pensi che volevo fare il prete, da giovane... Ho studiato, da prete. E le dico di più: se i frati potessero avere le donne, mi farei subito frate, e sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, non sono geloso, i dolci non li mangio mai, non conosco le carte... Infatti abbandonai l’idea di diventar prete proprio quando scappai con una canzonettista, a vent’anni. Ma che ci vuol fare: io, quell’affare della castità, non lo capisco. Lo trovo così disumano, innaturale. Il cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca. È dunque per questa religiosità che ha preso tanto filosoficamente la disgrazia degli occhi? Mi accorgo ora che non mi ha mai parlato degli occhi: che sono molto ammalati, lo so. Per raziocinio, direi. Io sono un uomo molto logico, vede. Sono un ragionatore. Non per nulla vengo da una città di avvocati, credo anzi che sarei stato un meraviglioso avvocato. E secondo logica, dico: stabilito che le disgrazie sono fatte per gli uomini, perché arrabbiarsi contro le disgrazie? Sarebbe come arrabbiarsi perché piove, o perché c’ è il sole, o perché si muore. La morte esiste, la pioggia esiste, la cecità esiste: e ciò che esiste va accettato. Disperarsi a che serve? A vederci meglio? Bisogna adattarsi: prima per esempio scrivevo a mano, ora detto al magnetofono. Prima leggevo molto. Ora mi faccio leggere. E poi proprio cieco non sono: da un occhio, sì, non vedo quasi nulla, ma dall’altro vedo la periferia. Cioè, se mi metto di profilo, io frego l’occhio e la vedo come se stessi di faccia. Posso anche recitare e, infatti, vede: continuo a lavorare, lavoro. Né questo mi rende infelice. Signorina mia, ciascuno ha da portare una croce e la felicità, creda a me, non esiste. L’ho scritto anche in una poesia: «Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà». Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.

F - E quando recita, non Le capita di essere un pochino felice? A vederLa si direbbe di sì.

T - Quella non è felicità, è un’altra cosa: che non so spiegare. Recitare, vede, per me è come una droga. Meglio: un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio, se mi chiede: come fa a esser tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. Non sono mai stato ginnasta, l’ unico sport che ho praticato è stato il ciclismo: quand’ero ragazzo. Ciclismo!... Andavo in bicicletta. Se lei mi chiede: come fa a far le capriole, ad arrampicarsi sui muri come una mosca? Io le rispondo non so: dicono che dipenda dai muscoli allungati, quindi flessibili. Ma cosa voglia dire, boh! Se lei mi chiede: come fa a inventare quelle espressioni buffe, quelle smorfie? Io le rispondo non lo so. Non è una disciplina, non è uno studio. È un istinto. Una roba che succede da sé, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso. Le medesime cose non le faccio: sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’ arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alla rivista, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante, che è un film serio: quindi diverso. Ma che io sia quello e non altro, non v’è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me.

F - Principe, posso farLe una domanda?

T - Prego, si accomodi.

F - Ecco: ma a Lei... a Lei piace Totò?

T - Le rispondo una cosa che non ho mai detto a nessuno, una cosa cui non crederà: ma vorrei ci credesse perché gliela dico col cuore in mano, signorina mia, glielo giuro sulla tomba di mia madre. Non mi piace neanche un pò. Anzitutto non mi piace come uomo: fisicamente. Signorina mia... ma l’ha visto, lei, quant’ è brutto? La faccia, signorina mia... ma l’ha vista? Tutta torta, tutta asimmetrica. La parte di sinistra, passi: è una faccia lunga, una faccia triste. Ma la parte di destra, Gesù! Maria! Che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento! Dunque, anzitutto Totò non mi piace fisicamente. Poi non mi piace come personaggio... Perché, dice lei. Perché... non lo so, mi sta antipatico. Io quando mi vedo, o meglio quando mi vedevo al cinematografo, il che capitava assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, io mi guardavo e pensavo: Gesù, quanto è antipatico, quello. E poi Totò non mi piace come attore, come recita. Perché? Dice lei. Perché non lo so, perché non mi fa ridere. E badi che i film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Alberto Sordi, mi diverte Ugo Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola d’onore, non mi diverte per niente.

F - Per questo, Principe, quando lavora, chiede sempre: «Sono stato bravo?», «Posso continuare così?». Per questo m’ha accolto così gentilmente ed è tanto modesto? Per questo.

T - Io, signorina mia, sono afflitto da un brutto complesso: il complesso di inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale. Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più... Vorrei esser stato più curioso, io non sono mai stato curioso. Osservatore, sì, tutti i miei personaggi nascono dall’ osservazione, ma curioso mai. E ora che sono mezzo cieco e non posso curiosar più, legger più, studiar più...

F - Si consoli, Principe: al vocabolario c’ è arrivato lo stesso. Guardi. (Gli porgo, disattentamente, un giornale). Lo legga. Che dice? Dice che è uscito un libro, Storia linguistica dell’Italia, dove Lei vien citato come esempio di efficacia linguistica e dove le Sue espressioni "fa d’uopo", "quisquiglie", "pinzillacchere", son riportate come espressioni ormai entrate nell’uso comune. Quindi nel vocabolario.

T - Oh! Oh! Oh! Che bello! Questa sì che è una gioia, un onore, un piacere. (Afferra il giornale, tenta inutilmente di leggerlo, e i suoi occhi sono lucidi). Cara, quanto è cara! Chi glielo ha dato?

F - Un Suo ammiratore coltissimo: il quale ha saputo che venivo da Lei. Era molto eccitato all’idea che venissi da Lei. Anzi, Le dirò Principe: tutti coloro cui ho detto che venivo da Lei erano molto eccitati. Lei è molto amato dagli italiani, sa?

T - Ah, sì? (Si stringe impercettibilmente nelle spalle e i suoi occhi cessano di colpo d’essere lucidi). Forse. Visto che mi faccio i fatti miei e non do mai fastidio. (Guarda intorno, distratto).

F - Principe... mi viene un sospetto.

T - Quale, cara?

Fallaci - Che non le importi un fico d’essere amato. Proprio niente. (Mi avvicina le labbra a un orecchio).

Totò - Detto fra noi, non me ne importa un bel niente. E non mi importa nemmen di piacere. Nell’uno o nell’altro caso, io tiro a campà. Tanto, il bene, me lo voglio da me.





Io ti dico che l’uomo è uomo quando non è testardo. Quando capisce che è venuto il momento di fare marcia indietro, e la fa. Quando riconosce un errore commesso, se ne assume le responsabilità, paga le conseguenze, e non cerca scuse. Quando amministra e valorizza nella stessa misura tanto il suo coraggio quanto la sua paura.



Eduardo De Filippo 

Era d'agosto ed un povero uccelletto, 
ferito dalla fionda d’un maschietto 
andò per riposare l’ala offesa 
sulla finestra aperta di una chiesa.
Dalle tendine del confessionale 
il parroco intravide l’animale 
ma pressato dal ministero urgente, 
rimase intento a confessar la gente.

Mentre in ginocchio alcuni, altri a sedere
dicevano fedeli le preghiere 
una donna, notato l’uccelletto, 
lo prese al caldo e se lo mise al petto.

D’un tratto un cinguettio ruppe il silenzio
e il prete a quel rumore 
il ruolo abbandonò di confessore 
e scuro in viso peggio della pece 
si arrampicò sul pulpito e poi fece: 

“Fratelli, chi ha l’uccello, per favore, 
esca fuori dal tempio del signore” 
I maschi, un po’ stupiti a tal parole, 
lenti si accinsero ad alzar le suole 

ma il prete a quell’errore madornale: 
“Fermi” Gridò “Mi sono espresso male, 
rientrate tutti e statemi a sentire, 
solo chi ha preso l’uccello deve uscire” 

A testa bassa con la corona in mano 
cento donne si alzaron pian piano 
ma mentre se ne andavano ecco allora 
che il parroco strillò: “Sbagliate ancora,

rientrate tutte quante figlie amate 
ch' io non volevo dir quel che pensate. 
Ecco, quello che ho detto torno a dire, 
solo chi ha preso l’uccello deve uscire 

ma, mi rivolgo, non ci sia sorpresa 
soltanto a chi l’uccello ha preso in chiesa”. 
Finì la frase e nello stesso istante 
le monache s'alzaron tutte quante 

e con in volto, pieno di rossore, 
lasciavano la casa del Signore. 
“O Santa Vergine” Esclamò il buon prete, 
“Fatemi la grazia se potete”. 

Poi “Senza fare rumore, dico, piano piano, 
si alzi soltanto chi ha l’uccello in mano”. 
Una ragazza che con il fidanzato 
si era messa in un angolo appartato 
sommessa mormorò con il viso smorto: 
“Che ti dicevo? Hai visto, se n'è accorto!”.


Trilussa



Older Posts

Goethe - Viaggio in Italia

Goethe - Viaggio in Italia
Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d'oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro. Tranquillo è il mirto, sereno l'alloro. Lo conosci tu bene? Laggiù, laggiù vorrei con te, o mio amato, andare!

Seguici su Facebook

Post recente

L'anima di Messina

Post più letti

  • La Leggenda di Colapesce
    Cola o Nicola è di Messina ed è figlio di un pescatore di Punta Faro. Cola ha la grande passione per il mare. Amante anche dei pesci,...
  • Felicità
    Felicità! Vurria sapè ched'è chesta parola,  vurria sapè che vvò significà.  Sarrà gnuranza 'a mia, mancanza 'e sc...
  • Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti.
    I Pupi Siciliani Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo...
  • In morte di Elio Vittorini
    Il 12 febbraio 1966, moriva a Milano, lo scrittore siciliano Elio Vittorini, nato a Siracusa il 23 luglio 1908. In occasione del 48° a...
  • Le Cicalate di Don Pippo Romeo
    Vieni a me stranier, che vuoi? La tua Patria?- Fu Messina. Il tuo nome e gli anni tuoi? Pippo e gli anni una trentina, Fosti...
Powered by Blogger.

Nuovo Cinema Paradiso

Modulo di contatto

Nome

Email *

Messaggio *

Segnala una violazione

Alfonso Gatto Andrea Camilleri Antonello da Messina Antonio De Curtis in arte Totò Carlo Alberto Salustri in arte Trilussa Eduardo De Filippo Elio Vittorini Gesualdo Bufalino Giovanni Verga Giuseppe Pitrè Giuseppe Tomasi di Lampedusa Ignazio Buttitta Johann Wolfgang von Goethe Leonardo Sciascia Luigi Pirandello Massimo Troisi Matilde Serao Natalia Ginzburg Nino Ferraù Nino Martoglio Pippo Romeo Renato Guttuso Salvatore Fiume Salvatore Quasimodo Vincenzo Consolo Vitaliano Brancati

Licenza Creative Commons

Licenza Creative Commons
Il Patrimonio Culturale del Meridione è rilasciato sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 2.5 Italia
Created By SoraTemplates | Distributed by GooyaabiTemplates