Al padre

by - ottobre 21, 2012

Il terremoto del 1908 che rase al suolo la città di Messina

Dove sull’acque viola era Messina,

tra fili spezzati e macerie

tu vai lungo binari e scambi

col tuo berretto di gallo isolano.

Il terremoto ribolle da due giorni,

è dicembre d’uragani e mare avvelenato.

Le nostre notti cadono nei carri merci

e noi bestiame infantile

contiamo sogni polverosi con i morti

sfondati dai ferri, mordendo mandorle

e mele dissecate a ghirlanda.

La scienza del dolore

mise verità e lame

nei giochi dei bassopiani di malaria

gialla e terzana gonfia di fango.

La tua pazienza triste, delicata,

ci rubò la paura,

fu lezione di giorni uniti alla morte

tradita, al vilipendio dei ladroni

presi fra i rottami e giustiziati al buio

dalla fucileria degli sbarchi, un conto

di numeri bassi che tornava esatto

concentrico, un bilancio di vita futura.

Il tuo berretto di sole andava su e giù

nel poco spazio che sempre ti hanno dato.

Anche a me misurarono ogni cosa,

e ho portato il tuo nome

un pò più in là dell’odio e dell’invidia.

Quel rosso del tuo capo era una mitria,

una corona con le ali d’aquila.

E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni

ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali

di partenza colorati dalla lanterna

notturna, e qui da una ruota

imperfetta del mondo,

su una piena di muri serrati,

lontano dai gelsomini d’Arabia

dove ancora tu sei, per dirti

ciò che non potevo un tempo - difficile affinità

di pensieri - per dirti, e non ci ascoltano solo

cicale del biviere, agavi lentischi,

come il campiere dice al suo padrone:

"Baciamu li mani".

Questo, non altro.

Oscuramente forte è la vita.


Salvatore Quasimodo


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